saudade...

PARA MIS AMIGOS HISPANOHABLANTES :)

MENSAJE PARA MIS AMIGOS HISPANOHABLANTES :)
Hola gente!
Esta va a ser una pequeña descripción de lo que voy a estar haciendo acá, en este espacio virtual que habla de mi Erasmus en Portugal.
Les explico: como ustedes saben, ya estoy a punto de terminar la Uni y este es mi último semestre antes de recibirme.
Parte de mi proyecto final (que básicamente se centra en el choque cultural y las dificultades a la hora de integrarse, con referencias a las funciones del cuento de Propp... si quieren más informaciones, me van diciendo jajaja) va a ser escribir un blog sobre mi experiencia de intercambio, la lengua, lo difícil de adaptarse a una nueva cultura etc etc. Es muy importante para mí, ya que esta va a ser la parte más linda y más central de todo mi proyecto :)
Decidí que cada tanto va a haber un post en castellano, cuando se me ocurra alguna cosita interesante o alguna comparacón con los países hispanohablantes que conozco (sobretodo con mi querida Argentina), para que ustedes, si es que están interesados, puedan saber que es lo que va pasando en esta tierra portuguesa :)
Un abrazo y un saludito!!

martedì 5 aprile 2016

Primo post, primo problema: LA LINGUA

FALAS?

Saudade
É uma palavra
Saudade
Só existe na língua portuguesa
Saudade de Val vendendo pó na esquina
Saudade do que nunca vai voltar

E dos amigos que se foram
Eu hoje estou com saudade
Na noite quente e no calor
Que sobe do asfalto
Saudade quente
Saudade da roda de cerveja
Dos amigos da madruga e
Saudade de nadar no mar
E um dia ter sido mais puro
Saudade da primeira namorada
E namorado também
Saudade, principalmente
Da irresponsabilidade
Saudade, meus amigos
Daqui a pouco vou estar com vocês.”

La prima parola che ho imparato ad apprezzare in portoghese è un classico assoluto ed è conosciuta anche da coloro che non hanno familiarità con questa lingua: saudade. La “saudade” non è la semplice nostalgia. Si sente “saudade” quando si percepisce chiaramente l’assenza di qualcosa o qualcuno; è malinconia commossa, un insieme di sentimenti contrastanti che spaziano dalla gioia nel ripensare a ciò che è stato fino alla tristezza per averlo perso, con un tocco poetico di rimpianto. E’ una parola senza traduzione, o comunque qualsiasi traduzione non le rende giustizia. Il fatto che in così tante lingue esistano parole intraducibili ci porta inevitabilmente a riflettere su quante differenze, tanto linguistiche quando profondamente culturali, intercorrano fra un popolo e l’altro. Se la lingua rappresenta il modo in cui ogni cultura rappresenta la propria realtà (basti pensare ai modi di dire, ai proverbi, alle similitudini che ogni lingua costruisce), è naturale che in essa troviamo molti indizi che ci parlano del popolo che comunica attraverso di essa; i portoghesi e i brasiliani sentono “saudade” di qualcosa, noi sentiamo semplice nostalgia.

Per questo oggi ho voglia di parlare di lingua.

Un immigrato, una cellula estranea al sistema culturale in cui si trova, si scontra inizialmente con l’ostacolo PRIMARIO, il più temibile, la scusa con la quale parecchi giovani e meno giovani italiani scelgono di non spostarsi dalla loro comfort zone originaria: la lingua. Che sia una lingua di origini totalmente diverse dalla nostra lingua madre (come potrebbero essere per un italiano il cinese, il giapponese, il russo e molte altre….) o che si tratti di una lingua a noi più “vicina” nelle radici (come sono le altre lingue neolatine, come ad esempio francese, rumeno, portoghese e spagnolo), la lingua straniera è sempre il primo “antagonista” che ci troviamo a fronteggiare al momento di trovare il nostro posto in un paese straniero.
Solo chi si è trovato a risiedere all’estero per un periodo medio – lungo sa quanto sia profonda la frustrazione di non poter comunicare. Gli esseri umani sono creature semi-sociali (il che significa che non siamo, come le formiche, animali totalmente interdipendenti ... ma che abbiamo comunque un disperato bisogno degli altri per sentirci a nostro agio) e la mancanza di contatto con i propri simili provoca loro un forte stress emotivo, che se portato avanti per lunghi periodi risulta difficile da sopportare. Soprattutto se non si conosce assolutamente nulla della lingua alla quale ci si sta approcciando (come nel mio caso con il portoghese), il primo impatto può risultare... traumatico. Dal semplice fare la spesa al più complicato costruire relazioni di amicizia, la lingua è un qualcosa che ci accompagna costantemente e ci ricorda quanto siamo lontani da casa, dal nostro ambiente familiare e protetto dove non dovevamo sforzarci per riuscire a dire “un caffè, grazie” (per non parlare del caffè all’estero, problema alimentare numero uno degli italiani emigrati, seguito subito dopo dalla pizza). E tutto questo è terribilmente frustrante.
A questo punto ci troviamo di fronte a vari tipi di approccio che possiamo utilizzare. D’altronde, basta osservare il tipico studente erasmus di qualsiasi nazionalità per averne conferma; dopo un’attenta osservazione, sono due gli atteggiamenti più comuni che ho riscontrato:
1)   Ci chiudiamo in noi stessi e socializziamo soltanto con i nostri connazionali. Questa scelta è, purtroppo, quella operata da molte culture sud europee come quella italiana; quale studente straniero non ha presente il tipico gruppetto di italiani in erasmus che stava seduto al bar della sua facoltà bevendo caffè? Non che ci sia nulla di male nel condividere l’esperienza con altri studenti del nostro paese, anzi; il problema sorge nel momento in cui gli unici contatti che abbiamo sono… i loro.  Ovviamente questa operazione di “chiusura a riccio”, che spesso e volentieri è assolutamente involontaria, presenta alcuni vantaggi. Comunicare non richiede nessun tipo di sforzo. Le modalità di approccio, il tipo di umorismo, il background generale sono condivisi da tutti membri del gruppo. Allevia la nostalgia di casa. Ma allo stesso tempo, a lungo andare, provoca un isolamento totale nei confronti della comunità straniera in cui si risiede; lo si vede tanto a livello universitario, che in questo caso è mia esperienza diretta, come a livello sociale più problematico quando parliamo di immigrazione e comunità straniere (in quest’ultimo caso, tuttavia, bisogna considerare molti altri fattori culturali quali il rifiuto dello straniero da parte della comunità ospitante, la mancanza di mediazione fra le due culture etc). 
2)   Si ricorre alla lingua universalmente riconosciuta (nel caso in cui non ci si trovi in una nazione anglofona): l’inglese. Questo è un caso che solitamente si limita alla comunità studentesca, nella quale l’inglese è una lingua comunemente usata e parlata per scopi tanto accademici e personali. L’inglese non è la nostra lingua materna, ma ci permette comunque di stabilire un contatto con il mondo esterno senza dover sentire quel familiare senso di isolamento che compare non appena ascoltiamo i nostri compagni conversare nella loro lingua (a noi ancora sconosciuta). Ci permette di comunicare con gli altri studenti stranieri, con i professori, con i colleghi. E’ un’ottima mediazione da utilizzare durante il primo periodo, giacché permette alla nostra mente di operare una sorta di “transizione”; non siamo più nel limbo della lingua madre, ci siamo spostati verso altri orizzonti. Tuttavia, restare in questa fase per troppo tempo comporta una controindicazione: non riusciremo mai ad inserirci a pieno titolo nella comunità che ci ospita. Fino a che i nostri colleghi, i nostri amici dovranno rivolgersi a noi in inglese ci sarà sempre uno stacco di spontaneità e di comprensione a rendere le cose più complicate; non siamo “dentro”, ma non siamo neanche “fuori”. 

    La situazione è ovviamente diversa se la lingua con cui abbiamo a che fare è particolarmente difficile e il periodo a nostra disposizione breve; con 4 mesi in Finlandia è difficile diventare fluenti in finlandese, stesso discorso per lingue come l’estone, il polacco, l’islandese etc, che richiederebbero uno studio molto intenso e un contatto costante con la lingua per permetterci di padroneggiarla in così poco tempo; ma, insomma, ci siamo capiti. 

La scelta migliore, che è anche (purtroppo), la più difficile, generalmente è quella di buttarsi a capofitto nella lingua e cancellare la paura di sbagliare.
Le persone rideranno un po’ (succede, quando invento dei congiuntivi in portoghese), ci troveranno buffi… ma chi ha detto che è un male?

In fin dei conti, imparare una lingua è un viaggio nel viaggio. Ho scoperto che in portoghese esiste il congiuntivo futuro. Ho passato due settimane a formare periodi ipotetici, e alla fine, bene o male, sono riuscita a capire il meccanismo. Ho scoperto che in portoghese quando si dice “a gente” (lett., la gente) non ci si riferisce a un gruppo di persone in generale; ci si riferisce a NOI. “A gente vai embora” non significa “la gente se ne va”, ma “noi ce ne andiamo”. Non chiedetemi perché. Ma se mai vi capitasse di parlare con dei portoghesi, o soprattutto con dei brasiliani (in Brasile il “noi”, nos, è praticamente in disuso), sappiate che vi tocca riferirvi a voi stessi in terza persona; il che, pensandoci è abbastanza originale e divertente. Ho scoperto che la risposta tipica ad una domanda che richiede il si o no non è il corrispondente “sim” o “não”, bensì la ripetizione del verbo stesso. “E’ bom o chà?” (è buono il the?) “E’”. “Gostas de Portugal?” (“ti piace il Portogallo?”). “Gosto”. “E’ aqui onde moras?” (E’ qui che abiti?”) “Não è” . Il che non impedisce certo la comunicazione, ma rispondere con un semplice “sim” è come attaccarsi in fronte un cartello che dice “STRANIERA”.

Qualsiasi studente erasmus può raccontare centinaia di aneddoti come questi e anche di più, ma il punto, ho pensato, è fondamentalmente uno: vale la pena commettere errori, se il premio è un lasciapassare per entrare a porte aperte in questa cultura. Se volessimo semplicemente starcene a casa ad ascoltare italiano, dopotutto, non avremmo mai viaggiato.


Beijinhos!


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