FALAS?
“Saudade
É uma palavra
Saudade
Só existe na língua portuguesa
Saudade de Val vendendo pó na esquina
Saudade do que nunca vai voltar
E dos amigos que se foram
Eu hoje estou com saudade
Na noite quente e no calor
Que sobe do asfalto
Saudade quente
Saudade da roda de cerveja
Dos amigos da madruga e
Saudade de nadar no mar
E um dia ter sido mais puro
Saudade da primeira namorada
E namorado também
Saudade, principalmente
Da irresponsabilidade
Saudade, meus amigos
Daqui a pouco vou estar com vocês.”
É uma palavra
Saudade
Só existe na língua portuguesa
Saudade de Val vendendo pó na esquina
Saudade do que nunca vai voltar
E dos amigos que se foram
Eu hoje estou com saudade
Na noite quente e no calor
Que sobe do asfalto
Saudade quente
Saudade da roda de cerveja
Dos amigos da madruga e
Saudade de nadar no mar
E um dia ter sido mais puro
Saudade da primeira namorada
E namorado também
Saudade, principalmente
Da irresponsabilidade
Saudade, meus amigos
Daqui a pouco vou estar com vocês.”
La prima parola che ho
imparato ad apprezzare in portoghese è un classico assoluto ed è conosciuta
anche da coloro che non hanno familiarità con questa lingua: saudade. La “saudade” non è la
semplice nostalgia. Si sente “saudade”
quando si percepisce chiaramente l’assenza di qualcosa o qualcuno; è malinconia commossa, un insieme di sentimenti
contrastanti che spaziano dalla gioia nel ripensare a ciò che è stato fino alla
tristezza per averlo perso, con un tocco poetico di rimpianto. E’ una
parola senza traduzione, o comunque qualsiasi traduzione non le rende
giustizia. Il fatto che in così tante lingue esistano parole intraducibili ci
porta inevitabilmente a riflettere su quante differenze, tanto linguistiche quando profondamente culturali, intercorrano fra un popolo e
l’altro. Se la lingua rappresenta il modo in cui ogni cultura
rappresenta la propria realtà (basti pensare ai modi di dire, ai proverbi, alle
similitudini che ogni lingua costruisce), è naturale che in essa troviamo molti
indizi che ci parlano del popolo che comunica attraverso di essa; i portoghesi
e i brasiliani sentono “saudade” di qualcosa, noi sentiamo semplice nostalgia.
Per questo oggi ho voglia di parlare di lingua.
Un immigrato, una
cellula estranea al sistema culturale in cui si trova, si scontra inizialmente
con l’ostacolo PRIMARIO, il più temibile, la scusa con la quale parecchi
giovani e meno giovani italiani scelgono di non spostarsi dalla loro comfort zone originaria: la lingua. Che
sia una lingua di origini totalmente diverse dalla nostra lingua madre (come
potrebbero essere per un italiano il cinese, il giapponese, il russo e molte
altre….) o che si tratti di una lingua a noi più “vicina” nelle radici (come
sono le altre lingue neolatine, come ad esempio francese, rumeno, portoghese e
spagnolo), la lingua straniera è sempre il primo “antagonista” che ci troviamo
a fronteggiare al momento di trovare il nostro posto in un paese straniero.
Solo chi si è trovato
a risiedere all’estero per un periodo medio – lungo sa quanto sia profonda la
frustrazione di non poter comunicare. Gli esseri umani sono creature
semi-sociali (il che significa che non siamo, come le formiche, animali
totalmente interdipendenti ... ma che abbiamo comunque un disperato bisogno degli
altri per sentirci a nostro agio) e la mancanza di contatto con i propri simili
provoca loro un forte stress emotivo, che se portato avanti per lunghi periodi
risulta difficile da sopportare. Soprattutto se non si conosce assolutamente
nulla della lingua alla quale ci si sta approcciando (come nel mio caso con il
portoghese), il primo impatto può risultare... traumatico. Dal semplice fare la
spesa al più complicato costruire relazioni di amicizia, la lingua è un
qualcosa che ci accompagna costantemente e ci ricorda quanto siamo lontani da
casa, dal nostro ambiente familiare e protetto dove non dovevamo sforzarci per
riuscire a dire “un caffè, grazie” (per non parlare del caffè all’estero,
problema alimentare numero uno degli italiani emigrati, seguito subito dopo dalla pizza). E tutto questo è
terribilmente frustrante.
A questo punto ci
troviamo di fronte a vari tipi di approccio che possiamo utilizzare.
D’altronde, basta osservare il tipico studente erasmus di qualsiasi nazionalità
per averne conferma; dopo un’attenta osservazione, sono due gli atteggiamenti
più comuni che ho riscontrato:
1) Ci chiudiamo in noi stessi e socializziamo
soltanto con i nostri connazionali. Questa scelta è, purtroppo, quella operata
da molte culture sud europee come quella italiana; quale studente straniero non
ha presente il tipico gruppetto di italiani in erasmus che stava seduto al bar
della sua facoltà bevendo caffè? Non che ci sia nulla di male nel condividere
l’esperienza con altri studenti del nostro paese, anzi; il problema sorge nel
momento in cui gli unici contatti che abbiamo sono… i loro. Ovviamente questa operazione di “chiusura a
riccio”, che spesso e volentieri è assolutamente involontaria, presenta alcuni
vantaggi. Comunicare non richiede nessun tipo di sforzo. Le modalità di
approccio, il tipo di umorismo, il background generale sono condivisi da tutti
membri del gruppo. Allevia la nostalgia di casa. Ma allo stesso tempo, a lungo
andare, provoca un isolamento totale nei confronti della comunità straniera in
cui si risiede; lo si vede tanto a livello universitario, che in questo caso è
mia esperienza diretta, come a livello sociale più problematico quando parliamo
di immigrazione e comunità straniere (in quest’ultimo caso, tuttavia, bisogna
considerare molti altri fattori culturali quali il rifiuto dello straniero da
parte della comunità ospitante, la mancanza di mediazione fra le due culture
etc).
2) Si ricorre alla lingua universalmente
riconosciuta (nel caso in cui non ci si trovi in una nazione anglofona): l’inglese.
Questo è un caso che solitamente si limita alla comunità studentesca, nella
quale l’inglese è una lingua comunemente usata e parlata per scopi tanto
accademici e personali. L’inglese non è la nostra lingua materna, ma ci
permette comunque di stabilire un contatto con il mondo esterno senza dover
sentire quel familiare senso di isolamento che compare non appena ascoltiamo i
nostri compagni conversare nella loro lingua (a noi ancora sconosciuta). Ci
permette di comunicare con gli altri studenti stranieri, con i professori, con
i colleghi. E’ un’ottima mediazione da utilizzare durante il primo periodo,
giacché permette alla nostra mente di operare una sorta di “transizione”; non
siamo più nel limbo della lingua madre, ci siamo spostati verso altri orizzonti.
Tuttavia, restare in questa fase per troppo tempo comporta una
controindicazione: non riusciremo mai ad inserirci a pieno titolo nella
comunità che ci ospita. Fino a che i nostri colleghi, i nostri amici dovranno
rivolgersi a noi in inglese ci sarà sempre uno stacco di spontaneità e di
comprensione a rendere le cose più complicate; non siamo “dentro”, ma non siamo
neanche “fuori”.
La situazione è
ovviamente diversa se la lingua con cui abbiamo a che fare è particolarmente
difficile e il periodo a nostra disposizione breve; con 4 mesi in Finlandia è
difficile diventare fluenti in finlandese, stesso discorso per lingue come
l’estone, il polacco, l’islandese etc, che richiederebbero uno studio molto
intenso e un contatto costante con la lingua per permetterci di padroneggiarla
in così poco tempo; ma, insomma, ci siamo capiti.
La
scelta migliore, che è anche (purtroppo), la più difficile, generalmente è
quella di buttarsi a capofitto nella lingua e cancellare la paura di sbagliare.
Le
persone rideranno un po’ (succede, quando invento dei congiuntivi in
portoghese), ci troveranno buffi… ma chi ha detto che è un male?
In
fin dei conti, imparare una lingua è un viaggio nel viaggio. Ho scoperto che in
portoghese esiste il congiuntivo futuro. Ho passato due settimane a formare periodi ipotetici, e
alla fine, bene o male, sono riuscita a capire il meccanismo. Ho scoperto che
in portoghese quando si dice “a gente” (lett., la gente) non ci si riferisce a
un gruppo di persone in generale; ci si riferisce a NOI. “A gente vai embora”
non significa “la gente se ne va”, ma “noi ce ne andiamo”. Non chiedetemi
perché. Ma se mai vi capitasse di parlare con dei portoghesi, o soprattutto con
dei brasiliani (in Brasile il “noi”, nos, è praticamente in disuso), sappiate
che vi tocca riferirvi a voi stessi in terza persona; il che, pensandoci è
abbastanza originale e divertente. Ho scoperto che la risposta tipica ad una
domanda che richiede il si o no non è il corrispondente “sim” o “não”, bensì la
ripetizione del verbo stesso. “E’ bom o chà?” (è buono il the?) “E’”. “Gostas de Portugal?” (“ti piace il Portogallo?”). “Gosto”. “E’ aqui onde moras?” (E’ qui
che abiti?”) “Não è” . Il che non
impedisce certo la comunicazione, ma rispondere con un semplice “sim” è come
attaccarsi in fronte un cartello che dice “STRANIERA”.
Qualsiasi
studente erasmus può raccontare centinaia di aneddoti come questi e anche di
più, ma il punto, ho pensato, è fondamentalmente uno: vale la pena commettere
errori, se il premio è un lasciapassare per entrare a porte aperte in questa
cultura. Se volessimo semplicemente starcene a casa ad ascoltare italiano,
dopotutto, non avremmo mai viaggiato.
Beijinhos!
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