saudade...

PARA MIS AMIGOS HISPANOHABLANTES :)

MENSAJE PARA MIS AMIGOS HISPANOHABLANTES :)
Hola gente!
Esta va a ser una pequeña descripción de lo que voy a estar haciendo acá, en este espacio virtual que habla de mi Erasmus en Portugal.
Les explico: como ustedes saben, ya estoy a punto de terminar la Uni y este es mi último semestre antes de recibirme.
Parte de mi proyecto final (que básicamente se centra en el choque cultural y las dificultades a la hora de integrarse, con referencias a las funciones del cuento de Propp... si quieren más informaciones, me van diciendo jajaja) va a ser escribir un blog sobre mi experiencia de intercambio, la lengua, lo difícil de adaptarse a una nueva cultura etc etc. Es muy importante para mí, ya que esta va a ser la parte más linda y más central de todo mi proyecto :)
Decidí que cada tanto va a haber un post en castellano, cuando se me ocurra alguna cosita interesante o alguna comparacón con los países hispanohablantes que conozco (sobretodo con mi querida Argentina), para que ustedes, si es que están interesados, puedan saber que es lo que va pasando en esta tierra portuguesa :)
Un abrazo y un saludito!!

giovedì 23 giugno 2016

PAROLE PORTOGHESI

Non ho scritto per un bel po’ di tempo, me ne rendo conto, fra fine dell’anno accademico (con le sue non poche difficoltà burocratiche, delle quali parecchie sono ancora da risolvere), queima das fitas, inizio stesura della tesi e un viaggio attualmente ancora in corso ho perso un po’ la bussola per quanto riguarda il tempo. MA. Mentre organizzo meglio un post sulla settimana accademica e sulla queima, che è qualcosa di cui bisognerà assolutamente parlare, ho pensato di scrivere di un tema più leggero: le parole portoghesi più strane o difficili da capire per noi italiani. In fondo, la lingua è il primo ostacolo che incontriamo quando decidiamo di uscire di casa e mettere piede in un paese straniero; le parole sono la prima forma di comunicazione alla quale ci affidiamo per esprimere bisogni, sentimenti, domande.

Ci sono quelle che non riusciamo a pronunciare, o quelle che non riusciamo a metterci in testa. Mi ricordo ancora con affetto del mio periodo in Argentina, quando non ero assolutamente capace di ricordarmi come si dicesse “sciogliersi”. Un gelato che si scioglie, per esempio. Impossibile. “Derretirse” é stato uno dei verbi peggiori mai memorizzati. Così come altre parole più specifiche della parlata argentina, come la differenza fra, perdonatemi la bassezza delle espressioni (che sono abbastanza volgari), “estar EN pedo “ e “estar AL pedo”. Il primo significa “essere ubriaco”, il secondo “annoiarsi”, “non avere nulla da fare”. Ecco, io ho passato i primi 3 mesi a confondere gioiosamente le due espressioni. O “chamuyar”, che significa “flirtare”. E, ovviamente, il famosissimo intercalare argentino “che” (Che Guevara, non a caso, deve il soprannome al fatto che gli argentini ripetano questa parola praticamente ad ogni frase), che può essere usato per chiamare l’attenzione di qualcuno, per cambiare argomento, per enfatizzare quello che si sta per dire, praticamente é una parola jolly da usare in qualunque situazione.. ma che gli stranieri generalmente non colgono. Normalmente si dice che uno straniero in argentina é davvero integrato quando inizia a bere mate (il tipico the gaucho), comincia ad usare l’espressione “boludo/a” (una sorta di nomignolo affettuoso dalle varie sfumature di significato) e ad infilare un “che” in ogni discorso. Ma, a lasciando da parte questo breve excursus su un altro paese, passiamo a raccontare un poco quali siano le parole che dovete assolutamente sapere se state per recarvi in Portogallo.



Embora (e la sua forma abbreviata “bora”) – questa parolina é una delle più curiose che abbia mai incontrato nel corso delle mie esperienze linguistiche. Letteralmente, significa “nonostante”, “sebbene”. Ad esempio: “embora não seja muito bem feito, da pra usar” (“nonostante non sia fatto bene, si può usare”). MA. L’espressione “ir embora” significa “andarsene”, “andare via”. Quale sia il nesso logico, ce lo stiamo chiedendo tutti. E no, non é un’espressione rara: é una delle più usate dai parlanti del portoghese. “Vamos embora” (“andiamo”), o addirittura semplicemente “bora” (che significa anch’essa “andiamo”, e che può essere usata anche come domanda, “bora?” = “ce ne andiamo?”).

Giro (portoghese europeo), fixe – due espressioni fondamentali se volete comprendere o usare il portoghese colloquiale. Entrambe le parole significano che qualcosa é “cool”, che ci piace. Una vostra amica vi fa vedere il suo nuovo libro di Vergilio Ferreira (che ogni buon portoghese ama)? Commentate : “Que giro!”. I vostri compagni di corso vi chiedono un’opinione riguardo il vostro gruppo rock preferito? Assicurate loro “é fixe.” Vi invitano a uscire e vi dicono luogo e ora d’incontro? Rispondete: “Fixe”. ATTENZIONE: queste due parole sono solo del portoghese europeo (e varianti africane). In Brasile é usata la parole legal. Si usa negli stessi identici contesti, cambia solo il fatto che in Portogallo non viene usata (ma viene comunque compresa).



Bué (portoghese europeo) – Una delle migliori parole mai inventare. Queste tre sillabe servono per enfatizzare qualsiasi cosa vogliate esprimere. “Aquilo foi bué fixe!” – “That was so cool!” (Mi é sembrato che la traduzione inglese funzionasse di più di quella italiana, in cui normalmente non usiamo il pronome per riferirci a qualcosa di cui stiamo già parlando. Noi diremmo “é stato bellissimo”, “é stato fantastico”). “Estou bué cansado/a” – “sono MOLTO stanco”. “A professora é bué boa” – “la professoressa é bravissima”. “Gosto bué disso” – “Questo mi piace tantissimo”. E’ l’equivalente dell’argentino “re”, che viene usato nello stesso identico modo. ATTENZIONE: questa parola viene usata solo nel portoghese europeo e africano. In Brasile normalmente usano bem, che é quasi equivalente a “bué”: ad esempio “Esse livro é bué giro” (PT) = “Esse livro é bem legal” (BR).

Nossa!, Gente! (portoghese brasiliano) – Nonostante siano espressioni estremamente tipiche del portoghese brasiliano, mi é sembrato doveroso nominarle. Vengono usate per esprimere sorpresa, indignazione, felicità, paura... insomma, buone per qualunque occasione. “Nossa, ta quente!” – “Mio Dio, che caldo!”, “Gente, eu tava tão assustada!” – “Mamma mia, avevo così tanta paura!”, “Nossa, que linda!” – “Oh, che carina!”etc etc. In Portogallo si può usare la versione lunga di “Nossa”, che sarebbe nossa senhora! Bisogna però ammettere che non ha la stessa forza espressiva!



Pai (portoghese europeo e più specificamente ALENTEJANO) – Ok, questa parola l’ho dovuta inserire per affetto verso la regione del Portogallo dove sto vivendo, ovvero l’Alentejo. Letteralmente, “pai” significa “padre”. Tuttavia, qui nell’Alentejo profondo viene usata per chiamare l’attenzione di un compagno, normalmente un ragazzo, o anche per rivolgersi ad un pubblico immaginario quando si vuole enfatizzare particolarmente quello che si sta dicendo. “Não pode ser, pai!” – “Non puó essere!”, “Olha pai, o que vais fazer hoje?” – “Senti amico, cosa fai oggi?”.



Achar – Letteralmente, “trovare”, simile allo spagnolo “hallar” (che in Argentina e Uruguay si pronuncia esattamente come il suo equivalente portoghese). Tuttavia, viene usato come sinonimo di “credere”, “pensare”, “supporre”... un po’ come potremmo usare “trovare” in italiano, con la differenza che in portoghese “achar” viene usato comunemente nel linguaggio quotidiano e non. “Acho que o professor vai chegar atrasado” – “Credo che il professore arriverà tardi”, “Achas boa a massa?” – “Ti sembra buona la pasta?”, “Acho melhor ligar pra ela” – “Mi sembra meglio telefonarle”, “Achavas que ia ser assim?” – “Immaginavi che sarebbe stato così?” etc.

Brincar – Significa “scherzare”, ma anche “giocare”. Infatti, come possiamo dire ad un amico “Tou a brincar!” – “Sto scherzando!”, possiamo dire “Quando era pequena, sempre brincava com as bonecas” – “Quando ero piccola, giocavo sempre con le bambole”. Uno scherzo é una brincadeira (si, la parola é femminile). ATTENZIONE: non confondere con brigar, che significa “litigare”! Io all’inizio li confondevo spesso a causa del suono simile!

Chato/a – Questo aggettivo serve per definire qualcosa o qualcuno che proprio non vi va giù, che non riuscite a sopportare, qualcosa di “pesante”. Può anche essere usato per definire una situazione difficile, o che non vi piace. Ad esempio: “Ele é bué chato” – “E’ molto pesante/fastidioso”. “Chumbei no test...”, “Que chato!” – “Non ho passato l’esame..” “Que schifo/che peccato!”.

Ficar /estar chateado/a – Deriva dall’agettivo precedente. Significa, letteralmente, “infastidito”; tuttavia viene usato per definire qualunque arrabbiatura di natura non troppo funesta. “Fiquei chateado com aquilo que me dizeste” – “Mi sono arrabbiato per quello che mi hai detto”, “Tou chateado com a Margarida” – “Sono arrabbiato con Margarida”.
Ficar/ estar bravo/a – Non fatevi trarre in inganno. E’ la versione forte di chateado/a. Significa “arrabbiarsi”, “essere arrabbiato/a”. “Estou muito brava contigo por causa do que fizeste!” – “Sono molto arrabbiata con te per quello che hai fatto!”.

Perceber – Un falso amico dei peggiori. Nonostante significhi anche “percepire”, é soprattutto usato come sinonimo di “capire”, “comprendere”. “Percebes português?” – “Capisci il portoghese?”, “Ela fala tão rapido que nunca percebo nada” – “Parla cosí veloce che non capisco mai niente”. Soprattutto, in Portogallo viene usato per richiamare l’attenzione dell’interlocutore nel corso di una conversazione, usandolo come noi useremmo “capisci?”. E’ molto comune la forma colloquiale “Estás/tas a perceber?” (lett: “stai capendo?”).  “Eu não queria brigar com ele, tas a perceber?” – “Io non volevo litigare con lui, mi capisci?”, “Tens que ir falar com a coordinadora, tas a perceber?” – “Devi parlare con la coordinatrice, hai capito?”.

Queste sono solo alcune delle parole o espressioni che mi sono sembrate più interessanti o utili da condividere, ma ce ne sono molte, molte altre; é da considerare anche il fatto che ognuno di noi trova difficoltà in cose diverse, quindi ciascuno, al momento di imparare una nuova lingua, ha i suoi scolgi da superare.

Uscendo da ogni schema logico, giusto per dimostrare che imparare una lingua non é mai facile come sembra, quali sono le parole che mi é costato di più imparare?

Panela e frigideira: pentola e padella. Si, “panela” significa “pentola”.
Descascar: sbucciare.
Louça: piatti, stoviglie.
Piada: battuta, barzelletta.
Enjoada/o: con un’indigestione, o con mal di stomaco. “Estou enjoada” – “Ho mal di stomaco” (perché non ho digerito bene).
La differenza fra som, sono e sonho. Il primo é un suono, il secondo é il sonno e il terzo é il sogno. Inutile dire in quante situazioni ho lasciato perplessi i miei compagni di corso, arrivando a lezione e dichiarando con aria funebre “Estou com son” invece che “Estou com sono”.
Sutiã. “Reggiseno”. Per qualche strano motivo, ci ho messo MESI a ricordarmi questa parola.
Massa. Significa pasta. E’ stata dura accettare che per qualche strano motivo, invece che usare la parola universalmente riconosciuta, i parlanti portoghesi dicano “massa”. Il lato positivo é che, anche se dite “pasta”, vi capiranno: rideranno un poco, ma vi capiranno.

Cenoura. Carota. Vi ho detto, non c’é una logica in base alla quale non riuscissi a ricordarmi questa parola. 



PS: se trovate qualche errore di battitura, perdonatemi. Ho appena aggiornato a Windows 10 e mi hanno passato il pacchetto microsoft tutto in spagnolo, dunque il computer non mi segna gli errori in italiano... vita di uno studente di lingue. 

venerdì 27 maggio 2016

COME FUNZIONA L'UNIVERSITA' PORTOGHESE?


Una delle cose che la maggior parte degli studenti si chiede, prima di partire per l’Erasmus, è come funziona l’università del suo nuovo paese. O forse, il che è ancora più probabile, non se lo chiede affatto: perché normalmente non ci fermiamo a riflettere sulle possibili differenze in un campo che ci sembra così ovvio, come quello della mera burocrazia. Ma vi assicuro: per quanto sembri un dettaglio insignificante, capire come funziona il lato “accademico” di un paese è parte della cultura dello stesso almeno tanto quanto lo è il cibo, o il modo di salutare. L’università italiana è impostata in un certo modo (con le dovute differenze da università a università) che comprende iscrizione online ai singoli esami, preferenza data alla valutazione orale (nelle facoltà che lo consentono, ovviamente), rapporto estremamente formale con i docenti, classi normalmente formate da moltissimi alunni …. Una serie di pezzi che compongono il grande puzzle della formazione universitaria.

Ma, se avete intenzione di studiare in Portogallo, o verrete qui in Erasmus, o semplicemente siete curiosi, sicuramente vi starete chiedendo: come funziona l’università portoghese?

Io, ovviamente, posso parlare a livello particolare dell’università di Evora; sicuramente ci saranno differenze rispetto alle altre università del paese, ma credo che quantomeno gli aspetti fondamentali siano comuni. Se qualcuno di voi ha informazioni extra, sono le benvenute!



Iniziamo dalla parte più complicata: esami, iscrizioni e corsi da seguire.
In Italia, o perlomeno ad Urbino, questo processo è abbastanza lineare. Ci si iscrive all’università, si presenta il piano di studio. Dopo qualche tempo, i corsi scelti appaiono online e da lì possiamo iscriverci agli esami, la cui data troviamo nella pagina web della facoltà.
Ora: ad Evora l’iscrizione all’università è solo il primo passo da seguire. L’iscrizione ai singoli corsi avviene gradualmente, uno per uno: ogni volta che un’iscrizione avviene con successo, si riceve una mail di conferma che “autorizza” a seguire le lezioni e fare l’esame di quel corso. Qual è il problema? Che questo processo, soprattutto se siete erasmus, può richiedere davvero MOLTO tempo. Moltissimo. Mesi. Siete iscritti all’università, ma magari dei 4 esami che dovete fare qui risultate iscritti solo ad uno. Il che implica anche che i professori non abbiano dove ufficializzare i vostri risultati, provocando qualche piccolo problema burocratico. Ma non temete. Con il tempo, tutto si risolve. 

E' comunque doveroso fare una precisazione: qui ad Evora, quest’anno, l’intero corso di Lingue ha subito un cambiamento di piani di studio e sono cambiati gli ordinamenti. Io, essendo all’ultimo anno, rientro nel vecchio ordinamento e come me tutti i miei colleghi; basti dire questo per farvi sapere che non solo io, ma tutti gli studenti di Lingue (lingue e letterature, lingue e turismo, letteratura ed arte, letteratura e musica e tutti i corsi di laurea collegati alle lingue straniere) abbiamo avuto parecchi problemi con i piani di studio. Piccola spiegazione. Ma andiamo avanti.

Parlando di esami, l’università di qui mi ricorda molto la scuola superiore. Le date e l’ora degli esami si concordano informalmente insieme al professore, così come le date dei “recursos” (esami che si affrontano nel caso l’esame “ufficiale” fosse andato male). Gli esami si svolgono senza bisogno di nessun documento d’identità ne’ libretto (che qui è scomparso da innumerevoli anni), semplicemente ci si presenta, ci si siede e si scrive. Tutti gli esami sono scritti, a meno che non si tratti di lingua, nel qual caso è presente una parte orale (nel caso di inglese, ad esempio, una presentazione su un tema a nostra scelta).

Se si frequentano le lezioni, è possibile essere valutati non in sede d’esame ma attraverso delle “frequencias”, una sorta di parziali ufficiali (sempre concordati col professore) che dividono in due o tre parti il carico di studio. Se tutte le frequencias del corso hanno esito positivo, non è necessario svolgere l’esame; con i voti ottenuti si fa una media che sarà la valutazione finale del corso.

Un altro elemento importante per l’università portoghese sono i “trabalhos de casa”, ovvero dei “compiti”, dei lavori individuali da svolgere autonomamente e da presentare al professore. Spesso vengono valutati con veri e propri voti che fanno media per la valutazione finale; si tratta solitamente, almeno per quanto riguarda la mia facoltà, di ricerche o saggi da scrivere, o presentazioni su un certo tema da preparare ed esporre davanti alla classe. Questo può mettere in difficoltà noi studenti italiani, spesso poco abituati al lavoro autonomo e alla stesura di testi argomentativi (a maggior ragione se in un’altra lingua); per fortuna, solitamente, i professori di qui sono molto disponibili ad aiutare. E’ possibile anche fissare appuntamenti al di fuori dell’orario di lezione, per ricevere un aiuto nella stesura di un lavoro o semplicemente sentirsi rispiegare un argomento particolarmente difficile.

La relazione con i professori è molto più rilassata e informale rispetto a quella a cui siamo generalmente abituati. Essendo le classi generalmente piccole (MOLTO piccole. La maggior parte delle mie lezioni si svolge con altre 4 colleghe, e si tocca il picco solo durante inglese con una ventina di persone presenti), i professori hanno modo di conoscere personalmente ogni studente e di rendersi disponibili ad adattare il programma secondo le nostre esigenze. La partecipazione alle lezioni è molto importante: agli studenti portoghesi non si richiede di tacere e prendere appunti, ma di commentare attivamente l’argomento studiato, fornire esempi, opinioni, riassumere quanto detto fino a quel momento, esprimere preferenze…. Il che è, tristemente, molto poco comune in Italia. Il fatto di non partecipare è mal visto tanto dagli altri studenti come dai professori, e spesso sorgono veri e propri dibattiti durante una lezione riguardanti l’argomento affrontato. Devo dire che questa è la parte che preferisco. Il fatto di sentirsi coinvolti e partecipi è un qualcosa che per gli studenti italiani rappresenta spesso un’utopia: siamo troppo abituati all’idea di insegnamento “classica”, dove il ruolo del professore è elencare informazioni e quello dello studente il memorizzarle. Gli studenti italiani sono timidi, non amano dare voce alle loro idee ne’ riflettere su quello che studiano; quando si richiede loro di fornire un’opinione, spesso e volentieri rifiutano e provano ostilità verso il docente che cerca di intraprendere un percorso alternativo a quello tradizionale. Il fatto di trovarsi in una cultura diversa, che anche in ambito accademico ci richiede un tipo di sforzo diverso, è sicuramente difficile e allo stesso tempo illuminante. Ci obbliga, in un certo senso, ad usare abilità che normalmente non siamo abituati a mettere in pratica; e questo, se riusciamo a non rifiutarci di uscire dalla comfort zone, è esattamente ciò che intendono gli studiosi quando parlando di “elasticità mentale” guadagnata vivendo all’estero. Il famoso problem solving che noi studenti internazionali dovremmo essere in grado di perfezionare consiste in questo, nell’affrontare situazioni inaspettate usando risorse comunemente lasciate da parte.



Parliamo ora di cose più leggere: gli orari delle lezioni, e qualche altro piccolo dettaglio curioso. 
Gli orari dell’università portoghese sono molto diversi da quelli dell’università italiana. C’è, ad esempio, una pausa obbligatoria che va dalle 13 alle 14 e che permette a studenti a professori di pranzare; allo stesso tempo le lezioni possono tranquillamente durare fino alle 20 o alle 21. Nell’università di Evora, o almeno nel CES (Colegio Espirito Santo, l’edificio più antico dell’università ed anche il centro organizzativo della stessa) che è dove si svolgono le mie lezioni, le aule si trovano su vari piani., senza una vera divisione per facoltà. Se si trovano al piano terra, sono normalmente distribuite attorno agli antichi chiostri (l’edifico risale al xv secolo) e conservano ancora gli azulejos originali, i pulpiti in legno e le panche del secolo XVIII; il “bar”, che funge anche da mensa, si trova all’interno dell’antica cucina. Non si tratta di una mensa vera e propria, e non esiste un equivalente alla nostra tessera dell’ersu: ciononostante, moltissimi studenti scelgono di pranzare lì a causa dei prezzi bassissimi (con meno di tre euro si possono avere un piatto di zuppa, un panino, un’insalata e un caffè). Una cosa, però, non cambia rispetto all'Italia: il bar è il centro delle pause degli studenti, e i portoghesi, almeno quanto gli italiani, amano bere caffè. Sono piccoli dettagli che a volte sanno di casa. 



Questo, ovviamente, è solo un breve riassunto della vita nell’università portoghese; ci sono mille altri dettagli da considerare, come le radicatissime tradizioni accademiche, le relazioni fra studenti, la stessa storia dell’università di Evora (una della più antiche del Portogallo), come la città sia effettivamente fatta su misura per la vita universitaria… c’è tanto da dire. Ma è meglio andare per gradi, e dopo questo post più "tecnico" ne arriverà uno più incentrato su eventi leggeri. 
Oggi è il primo giorno della queima das fitas; la città si sveglia e gli studenti sono in fervente e religiosa attesa. 


Beijihnos!

mercoledì 18 maggio 2016

JANTAR DE GALA E AMENE RIFLESSIONI

Abitudini portoghesi, capitolo secondo: JANTAR DE GALA.

Spesso e volentieri, a causa delle molte difficoltà burocratiche che sto incontrando durante questo percorso, ho pensato che forse sarebbe stata una scelta più saggia il venire qui durante il primo semestre. Allo stesso tempo, però, devo ammettere che essere qui alla fine dell’anno ha i suoi vantaggi particolari: fra questi, la serie interminabile di eventi che caratterizzano la conclusione dell’anno accademico.

Va detta una cosa: i portoghesi sentono molto lo spirito di appartenenza all'università. Avete presente quelle università inglesi di inizio Novecento, con gli studenti vestiti di nero, che passeggiano dentro edifici antichi e mettono su strani riti d’iniziazione per i nuovi arrivati … il tutto vagamente inquietante? Ecco. Spostatelo ai giorni nostri e mettetelo qui in Portogallo. Davvero.

La festa del Caloiro (durante la quale le matricole, i nuovi arrivati, festeggiano la “liberazione” dalla schiavitù che per due mesi li ha costretti ad eseguire gli ordini del loro “padrino” o “madrina” appartenente all’ultimo anno) si svolge a Novembre. Gli studenti dell’ultimo anno indossano il loro “traje” (una sorta di uniforme nera che comprende camicia bianca, pantaloni/gonna, scarpe eleganti e un ENORME mantello nero che fa molto Transilvania e viene ricoperto di “emblemas” cuciti durante gli anni) e le “tunas” (bande di studenti che cantano, suonano e ballano canzoni tradizionali della cultura accademica e non) danno spettacolo; una grande festa, insomma, che non ho avuto la fortuna di vivere ma che ho conosciuto a pezzettini (concerti di tunas, gente aleatoria che passeggia per l’università in uniforme, foto, racconti).



Quello che succede fra Aprile e Maggio, invece, è un po’ più sentimentale: già da Aprile i portoghesi, che sono legatissimi al loro periodo universitario, iniziano a dire addio all’anno accademico. Il che inizia a fine Aprile, quando tutte le facoltà organizzano il loro “jantar de gala” (letteralmente, cena di gala), e culmina a fine Maggio con la “semana academica” e la “queima das fitas”: di queste ultime parlerò molto a breve (sto già decorando le mie fitas e l’emozione per la settimana accademica è nell’aria), e adesso vorrei raccontare quale assurdo momento di festa sia un jantar de gala portoghese.



Perché assurdo?

Perché i portoghesi, normalmente molto alla mano e sempre estremamente rilassati, si vestono a festa. Per un jantar de gala è richiesto l’abito formale. Scarpe col tacco, trucco, vestiti importanti, smoking per i ragazzi, camicie e cravatte, capelli fatti dal parrucchiere; io, che alla fine non avevo molto tempo ne’ denaro da spendere in fronzoli vari, mi sono limitata al vestito e ai tacchi … ma alcune mie compagne, senza scherzare, erano vestite come per andare a un matrimonio. Per un paio di settimane, a partire dalle otto di sera, Evora si riempie di gruppi e gruppetti vestiti a festa; è molto facile individuare chi sta andando ad un jantar de gala.
La cena è rivolta a tutti i componenti della facoltà, ex alunni e professori compresi.

Lo stupore più grande, però, non è stato tanto l’abbigliamento quanto il dove e come tale magnifico evento ha avuto luogo: un’intera palazzina del centro storico è stata affittata, addobbata, decorata con tavoli rotondi e specchi, munita di casse e postazione da DJ e supervisionata da un’intera equipe di catering (!!!) . Il tutto per il modico prezzo di 15 euro a persona. Non so come sia possibile, ma sembra che nessuno dei miei colleghi lo trovi strano; Dio benedica il Portogallo.

                       (Un momento di entusiasmo durante la cena.)

Come una processione, gli studenti entrano nel luogo prescelto per la cena e prendono posto ai tavoli; sono i camerieri stessi a servire da bere (birra e sangria senza limiti), e il cibo consiste nel tipico baccalà (uno dei piatti più tradizionali della cucina portoghese). Per noi vegetariani c’è l’alternativa: risotto con funghi e spezie.
Studenti e professori siedono insieme. Partono cori su cori (altro elemento tipico della cultura, per così dire, giovanile del Portogallo) affinché tutti quanti bevano almeno un bicchiere: si nominano professori (che, a fine serata, sono tornati a casa un po’ barcollanti e sicuramente molto felici), studenti chiamati per nome, per anno, per nazionalità, per mese di nascita, per corso (io da sola sono stata infilata in un coro almeno dieci volte. In quanto studentessa di lingue, poi del corso di lingue e letterature, poi del terzo anno, poi in quanto straniera, poi in quanto erasmus, poi in quanto italiana, poi in quanto nata a Gennaio … e così via.) . Musica. Tutti scattano foto, si abbracciano, parlano, ballano. Si, professori compresi.


E’ stato veramente bellissimo.

Penso che sia fondamentale, per noi che viviamo qui solo un breve periodo della nostra vita, prendere parte a questi eventi così importanti per i portoghesi. Mi hanno fatta sentire parte del loro gruppo, della loro università. Hanno parlato e ballato con me, mi hanno offerto da bere ed invitata a brindare con loro. Mi hanno tenuto un posto al loro tavolo. E, più che all’ansia per gli esami (che è il sentimento unico, onnipresente e inevitabile del mio Aprile/Maggio italiano), mi hanno fatto sentire la malinconia allegra di essere alla fine di un percorso: per la prima volta, da quando ho iniziato a studiare all’università, mi sto fermando a riflettere su tutto quello che ho vissuto e su quanto sia stato veloce, intenso e importante. 

Il Portogallo mi sta facendo sentire il peso del tempo e l’importanza del celebrarlo: mi sta regalando del tempo per rendermi conto che sono alla fine del mio primo percorso universitario. E sto vivendo tutto questo insieme ai miei nuovi amici e colleghi, che senza farsi domande me ne hanno condiviso il lato migliore: quello di essere, almeno per qualche mese, una di loro. Probabilmente non avrei potuto chiedere miglior modo per concludere questi tre anni: vestita a festa, circondata da allegra confusione, e parlando portoghese.

Il fatto di scandire in questo modo il tempo degli studi fa capire ai miei colleghi quanto sia importante vivere il periodo universitario non solo come impegno e (spesso e volentieri) stress, ma come un percorso di crescita che porta al raggiungimento di un traguardo che non è solo accademico ma personale.

Mi viene da ripensare al corso di cultura russa che ho avuto l’anno scorso, in cui si parlava di una cultura rituale che nelle società odierne è praticamente scomparsa … tranne che in determinate situazioni e in certi ambienti, fra i quali spicca quello universitario di alcuni paesi. Il ritualizzare ci aiuta a superare il trauma del cambiamento, e a viverlo come un passaggio necessario. Lo vedo nel modo in cui italiani e portoghesi affrontano il periodo degli esami e il periodo della fine del percorso triennale: i primi con ansia, rabbia e paura di ciò che accadrà nell’anno successivo; i secondo che (pur avendo il loro carico di studio e dubbi riguardo alla vita futura) attraverso i tanti momenti di addio trovano un senso nella loro esperienza. Riescono a viverla più serenamente.

Uno dei momenti più belli di questo Erasmus è sicuramente quello vissuto insieme ai miei compagni durante il jantar de gala. Pensare che si sia trattato solo del preludio non fa che rendermi ancora più ansiosa di vedere cosa succederà, a breve, durante la queima.


Beijinhos

giovedì 12 maggio 2016

BREVE RIASSUNTO DI UN 25 APRILE PORTOGHESE

“Grândola, vila morena
Terra da fraternidade
O povo é quem mais ordena
Dentro de ti, ó cidade”
(Grândola, Vila Morena)

Brevissimo racconto di una festa


In Italia, il 25 Aprile festeggiamo la fine della guerra e la liberazione dal fascismo.
Dato curioso: anche in Portogallo si festeggia il 25 Aprile, che nel 1974 ha visto nascere quella che è conosciuta come la Revolução dos Cravos (rivoluzione dei garofani), la fine della dittatura portoghese. Mi è sembrata una coincidenza molto significativa, dal mio punto di vista italiano, che i miei due paesi (quello dove vivo ora e quello dove sono nata) festeggino entrambi una liberazione nello stesso giorno; e mi è sembrato interessante osservare come, esattamente, il Portogallo festeggi il suo 25 Aprile.

Ma prima di tutto… perché i garofani?



Me lo sono chiesta anche io. Il fatto che nei giorni precedenti al 25 aprile apparissero ovunque manifesti pieni di fiori rossi, e che la città si trovasse in un subbuglio abbastanza inusuale (Evora, per quanto sia una città molto viva, di solito non ha un palco piazzato davanti al municipio ne’ concerti programmati per 4 giorni di fila in diversi punti strategici della città) mi ha fatto sospettare che qui la festa sia molto più sentita che in Italia. Il mio amico Luis, che è praticamente il mio informatore numero 1 per quanto riguarda i misteri culturali del Portogallo, mi ha spiegato in breve cosa è successo il 25 Aprile: gli stessi militari al servizio del regime hanno organizzato un colpo di stato per rovesciare la dittatura, con l'appoggio della popolazione. Le persone, per le strade, infilavano garofani rossi nelle canne dei fucili: il regime si è arreso e la rivoluzione (unica al mondo nel suo genere) conta un numero di vittime pari a soltanto 4 morti. 



Il governo provvisorio che è stato poi costituito si è dato uno stampo di matrice molto socialista; e questo aspetto della cultura portoghese si vede ancora, in molte sfumature del pensiero comune e dell’orientamento politico generale del paese. La rivoluzione dei garofani, dunque.



Qui ad Evora, la città ha organizzato tre giorni di concerti distribuiti in varie parti della città ed uno spettacolo di fuochi artificiali nella piazza, allo scoccare della mezzanotte fra il 24 e il 25 aprile. Di fatto, la rivoluzione vera e propria è cominciata proprio a quell’ora: e mezzanotte e venti del 25 aprile 1974, alla radio ( Rádio Renascença) suona la canzone popolare “Grândola, Vila Morena” (dichiarata illegale dal regime in quanto “alludeva al comunismo”). E’ il secondo segnale dato dai militari, il vero inizio della rivoluzione. Il primo era stato, alle 22:55 del 24 aprile, la canzone “E depois do Adeus” trasmessa dagli Emissores Associados de Lisboa: il via alle prese di posizione. E così, in una notte, cambia la storia del paese.



Mi ha sorpresa incredibilmente come i portoghesi sentono lo spirito del 25 aprile. La piazza di Evora era talmente piena che per trovare i miei amici ho dovuto praticamente farmi strada a gomitate; sotto il palco c’erano tutti, o quasi tutti, gli studenti della città (Erasmus e portoghesi, insieme). Ho riconosciuto compagni di classe e conoscenti. A mezzanotte, il concerto finisce e si fa silenzio. Iniziano i fuochi artificiali. Comincia a suonare la canzone che diede il via alla rivoluzione, e nel silenzio generale i portoghesi cantano. Alcuni ragazzi regalano garofani. E’ stato davvero, davvero emozionante, per tutti noi studenti stranieri.

Mi ha fatto pensare, in effetti, a come noi sentiamo il nostro 25 aprile. Al fatto che molte persone, in Italia, non sanno bene neanche a cosa si deve questo giorno di festa; e al fatto che politici e intellettuali hanno più volte proposto di eliminarlo. Come se si potesse eliminare la storia. E penso che qui in Portogallo, il giorno dopo, alla fine di un concerto Ska il gruppo ha suonato “Bella Ciao” (si, in italiano), e tutti noi italiani abbiamo cantato. Un’amica nepalese mi ha detto che assolutamente, per favore dovevo insegnarle quella canzone. Qui, ed in Italia dimentichiamo.
Sono davvero grata per aver avuto l’opportunità di condividere questo momento con il popolo portoghese, e per aver potuto riflettere un po’ di più sul mio paese. E’ stata una settimana molto, molto intensa.

Nel prossimo episodio: il jantar de gala.

Beijinhos!

PS: Se volete saperne di più sulla rivoluzione
https://pt.wikipedia.org/wiki/Revolu%C3%A7%C3%A3o_de_25_de_Abril_de_1974

mercoledì 20 aprile 2016

L'EROE, LA TIMIDEZZA, LA PAROLA

Quello che ci rende più insicuri al momento di  avvicinarci ad una nuova cultura è probabilmente il non sapere come approcciare le persone; perché l’essere umano ha bisogno di contatto e la mancanza di relazioni è l’incubo di ogni migrante.
Noi, che pure siamo migranti provvisori (quantomeno ora), forse anche a causa della mancanza di tempo siamo più portati a temere questa solitudine. L’essere Erasmus aiuta: perlomeno fra di noi, studenti stranieri, ci sarà sempre un vincolo di solidarietà e comunicazione. Ma la sensazione di isolamento rispetto agli abitanti del paese, al popolo nel quale ci troviamo immersi, è un ostacolo particolarmente difficile da superare; la prova del nove dell’Erasmus è, quanti amici portoghesi (o inglesi, o francesi, o lituani etc) hai?
Il che non è per niente facile.
Una delle informazioni che ho sentito più di tutte le altre, quando ancora ero in attesa di comprare il mio biglietto di andata, è stata la seguente: i portoghesi sono chiusi, asociali, non rivolgono la parola agli studenti stranieri.
Prima conclusione: gli Erasmus in Portogallo si sentono soli. Coloro che hanno del Portogallo un’idea simile alla Spagna, mi spiace dirlo, sono completamente fuori strada. Tanto gli spagnoli amano parlare e avvicinarsi allo straniero, quanto i portoghesi sono timidi e poco portati a fare il primo passo. Le critiche più aspre espresse al Portogallo sono, guarda caso, formulate da studenti spagnoli o brasiliani (due culture molto, molto diverse da quella portoghese). Soprattutto quando a questa impreparazione culturale si somma quella linguistica (non solo non sappiamo come avvicinarli, ma non capiamo neanche cosa dicono!), il problema diventa ancora più spaventoso da affrontare.
Effettivamente, è vero: i portoghesi sono timidi. Difficilmente ti vedranno in un angolo dell’aula e verranno a chiederti chi sei, da dove vieni, cosa fai lì. E’ molto più probabile che ti guardino da lontano, se ne stiano a confabulare fra di loro e poi, semplicemente, ti ignorino.
Fatta questa premessa, bisogna però dire un’altra cosa: gli stranieri qui siamo noi. Per quanto faccia piacere ricevere attenzioni in un momento difficile (lontani da casa, in un posto nuovo etc), non possiamo piegare una cultura alle nostre necessità; restare nell’angolino e lamentarsi non porta a grandi risultati. Da che mondo è mondo, le persone stabiliscono relazioni fra di loro: lo fanno in Italia, lo fanno in Portogallo, in Spagna, in Svezia o in Germania. Semplicemente cambia il modo in cui le si inizia. Guardiamo in faccia la realtà: uscire dalla propria comfort zone significa anche entrare nelle modalità culturali dalle quali siamo circondati, non solo imparare una lingua e cambiare paese.
Ho scoperto che, nel momento in cui si rompe la timidezza iniziale, i portoghesi sono persone estremamente divertenti e profonde. La mia tecnica, nella disperata ricerca di farmi degli amici, è praticamente consistita nel sedermi in mezzo ai miei compagni ed iniziare a parlare: in una lingua a metà fra le poche parole di portoghese che conoscevo e l’inglese, ma parlare. Da quel momento non ho più smesso. Trovandomi in una classe molto piccola, legare con i miei compagni è stato incredibilmente facile; non farmi vedere intimorita è stato il miglior modo per farmi benvolere.
I portoghesi amano chiacchierare. Amano riunirsi a bere caffè e conversare insieme; amano ritrovarsi nei bar, nei locali, nella caffetteria dell’università. Amano circondarsi di amici. Adorano l’ironia e spesso e volentieri si prendono affettuosamente in giro fra di loro. Non guardano all’aspetto estetico di una persona, anzi, puntano tutto sulla personalità; è molto difficile vedere una ragazza o un ragazzo andare a lezione senza l’immancabile stile “mi sono appena alzato dal letto”, ma allo stesso tempo nessuno sforna inutili critiche riguardanti i vestiti o la curatezza del compagno di corso. Sono persone genuine e sincere. Sto imparando a voler bene a queste relazioni semplici e dirette; avrò nostalgia dei miei amici e del loro modo di fare.
E’ ragionevole pensare che, nel momento in cui uno straniero approda nel loro corso, i locali si aspettino che sia lui a fare il primo passo: il timore di risultare invadenti o fastidiosi, e a volte anche l’imbarazzo della lingua, sono ragioni più che valide per uno studente portoghese. Quindi sta a noi, basicamente, non avere paura.
Durante un viaggio nel nord del Portogallo, ho avuto una conversazione molto interessante con un mio amico portoghese proprio su questo tema. “Noi siamo timidi” mi ha detto, ridendo, a questo proposito “ci aspettiamo che se uno studente straniero vuole parlare con noi, sarà lui a venire.”
D’altronde, pensando a tanti racconti che mi sono stati fatti da amici stranieri che hanno avuto esperienze di scambio in Italia, noi italiani non siamo da meno in quanto ad accoglienza: anzi, molto spesso appariamo “freddi e presuntuosi” agli occhi dei ragazzi stranieri, con pochissima voglia di parlare e conoscere chi è diverso. Proprio perché non siamo noi a fare il primo passo. Ma questo non fa degli italiani un popolo di asociali (!), semplicemente si tratta di una modalità culturale diversa.
Una conclusione che ho tratto a proposito di tutto questo è che la preparazione culturale che si da agli studenti Erasmus è praticamente nulla.
Un’esperienza di questo tipo è, certo, un’esperienza di studio, ma è soprattutto un’occasione di crescita personale; per quanto sembri facile da dire, siamo un’intera generazione di ragazzi che per alcuni mesi vive, studia, mangia, dorme, parla, socializza e viaggia in un paese straniero. Per quanto a 20, 21, 22 e più anni possiamo essere autonomi a livello personale, nessuno ci insegna che il contatto fisico in Europa del Nord va usato con molta precauzione; che in Spagna gli orari sono molto dilatati; che il rapporto studente – insegnante può non essere lo stesso del nostro paese d’origine, o che il modo in cui ci si rivolge ad una persona più anziana può richiedere un registro particolare. Tutti questi sono elementi che, per tantissimi studenti, rendono l’esperienza Erasmus difficile e non completa; sono ostacoli all’integrazione.
Ovviamente a lungo andare tutto questo si impara: ma non sarebbe molto più facile dare agli studenti un minimo di preparazione culturale riguardo al paese di destinazione? Anche il semplice fatto di spiegare a uno studente spagnolo “guarda, se resti lì nessuno verrà a parlarti, muoviti e parla tu per primo” potrebbe risparmiare mesi di difficoltà e incomprensione.
Insomma. Questa volta avevo voglia di riflettere un po’ di più su un tema di cui si parla parecchio fra gli Erasmus e che probabilmente potrebbe essere d’aiuto a tanti altri studenti che sono in procinto di partire.
Fondamentalmente, non esistono paesi “aperti” o “chiusi”; esistono solo culture diverse.

Beijinhos

martedì 5 aprile 2016

Primo post, primo problema: LA LINGUA

FALAS?

Saudade
É uma palavra
Saudade
Só existe na língua portuguesa
Saudade de Val vendendo pó na esquina
Saudade do que nunca vai voltar

E dos amigos que se foram
Eu hoje estou com saudade
Na noite quente e no calor
Que sobe do asfalto
Saudade quente
Saudade da roda de cerveja
Dos amigos da madruga e
Saudade de nadar no mar
E um dia ter sido mais puro
Saudade da primeira namorada
E namorado também
Saudade, principalmente
Da irresponsabilidade
Saudade, meus amigos
Daqui a pouco vou estar com vocês.”

La prima parola che ho imparato ad apprezzare in portoghese è un classico assoluto ed è conosciuta anche da coloro che non hanno familiarità con questa lingua: saudade. La “saudade” non è la semplice nostalgia. Si sente “saudade” quando si percepisce chiaramente l’assenza di qualcosa o qualcuno; è malinconia commossa, un insieme di sentimenti contrastanti che spaziano dalla gioia nel ripensare a ciò che è stato fino alla tristezza per averlo perso, con un tocco poetico di rimpianto. E’ una parola senza traduzione, o comunque qualsiasi traduzione non le rende giustizia. Il fatto che in così tante lingue esistano parole intraducibili ci porta inevitabilmente a riflettere su quante differenze, tanto linguistiche quando profondamente culturali, intercorrano fra un popolo e l’altro. Se la lingua rappresenta il modo in cui ogni cultura rappresenta la propria realtà (basti pensare ai modi di dire, ai proverbi, alle similitudini che ogni lingua costruisce), è naturale che in essa troviamo molti indizi che ci parlano del popolo che comunica attraverso di essa; i portoghesi e i brasiliani sentono “saudade” di qualcosa, noi sentiamo semplice nostalgia.

Per questo oggi ho voglia di parlare di lingua.

Un immigrato, una cellula estranea al sistema culturale in cui si trova, si scontra inizialmente con l’ostacolo PRIMARIO, il più temibile, la scusa con la quale parecchi giovani e meno giovani italiani scelgono di non spostarsi dalla loro comfort zone originaria: la lingua. Che sia una lingua di origini totalmente diverse dalla nostra lingua madre (come potrebbero essere per un italiano il cinese, il giapponese, il russo e molte altre….) o che si tratti di una lingua a noi più “vicina” nelle radici (come sono le altre lingue neolatine, come ad esempio francese, rumeno, portoghese e spagnolo), la lingua straniera è sempre il primo “antagonista” che ci troviamo a fronteggiare al momento di trovare il nostro posto in un paese straniero.
Solo chi si è trovato a risiedere all’estero per un periodo medio – lungo sa quanto sia profonda la frustrazione di non poter comunicare. Gli esseri umani sono creature semi-sociali (il che significa che non siamo, come le formiche, animali totalmente interdipendenti ... ma che abbiamo comunque un disperato bisogno degli altri per sentirci a nostro agio) e la mancanza di contatto con i propri simili provoca loro un forte stress emotivo, che se portato avanti per lunghi periodi risulta difficile da sopportare. Soprattutto se non si conosce assolutamente nulla della lingua alla quale ci si sta approcciando (come nel mio caso con il portoghese), il primo impatto può risultare... traumatico. Dal semplice fare la spesa al più complicato costruire relazioni di amicizia, la lingua è un qualcosa che ci accompagna costantemente e ci ricorda quanto siamo lontani da casa, dal nostro ambiente familiare e protetto dove non dovevamo sforzarci per riuscire a dire “un caffè, grazie” (per non parlare del caffè all’estero, problema alimentare numero uno degli italiani emigrati, seguito subito dopo dalla pizza). E tutto questo è terribilmente frustrante.
A questo punto ci troviamo di fronte a vari tipi di approccio che possiamo utilizzare. D’altronde, basta osservare il tipico studente erasmus di qualsiasi nazionalità per averne conferma; dopo un’attenta osservazione, sono due gli atteggiamenti più comuni che ho riscontrato:
1)   Ci chiudiamo in noi stessi e socializziamo soltanto con i nostri connazionali. Questa scelta è, purtroppo, quella operata da molte culture sud europee come quella italiana; quale studente straniero non ha presente il tipico gruppetto di italiani in erasmus che stava seduto al bar della sua facoltà bevendo caffè? Non che ci sia nulla di male nel condividere l’esperienza con altri studenti del nostro paese, anzi; il problema sorge nel momento in cui gli unici contatti che abbiamo sono… i loro.  Ovviamente questa operazione di “chiusura a riccio”, che spesso e volentieri è assolutamente involontaria, presenta alcuni vantaggi. Comunicare non richiede nessun tipo di sforzo. Le modalità di approccio, il tipo di umorismo, il background generale sono condivisi da tutti membri del gruppo. Allevia la nostalgia di casa. Ma allo stesso tempo, a lungo andare, provoca un isolamento totale nei confronti della comunità straniera in cui si risiede; lo si vede tanto a livello universitario, che in questo caso è mia esperienza diretta, come a livello sociale più problematico quando parliamo di immigrazione e comunità straniere (in quest’ultimo caso, tuttavia, bisogna considerare molti altri fattori culturali quali il rifiuto dello straniero da parte della comunità ospitante, la mancanza di mediazione fra le due culture etc). 
2)   Si ricorre alla lingua universalmente riconosciuta (nel caso in cui non ci si trovi in una nazione anglofona): l’inglese. Questo è un caso che solitamente si limita alla comunità studentesca, nella quale l’inglese è una lingua comunemente usata e parlata per scopi tanto accademici e personali. L’inglese non è la nostra lingua materna, ma ci permette comunque di stabilire un contatto con il mondo esterno senza dover sentire quel familiare senso di isolamento che compare non appena ascoltiamo i nostri compagni conversare nella loro lingua (a noi ancora sconosciuta). Ci permette di comunicare con gli altri studenti stranieri, con i professori, con i colleghi. E’ un’ottima mediazione da utilizzare durante il primo periodo, giacché permette alla nostra mente di operare una sorta di “transizione”; non siamo più nel limbo della lingua madre, ci siamo spostati verso altri orizzonti. Tuttavia, restare in questa fase per troppo tempo comporta una controindicazione: non riusciremo mai ad inserirci a pieno titolo nella comunità che ci ospita. Fino a che i nostri colleghi, i nostri amici dovranno rivolgersi a noi in inglese ci sarà sempre uno stacco di spontaneità e di comprensione a rendere le cose più complicate; non siamo “dentro”, ma non siamo neanche “fuori”. 

    La situazione è ovviamente diversa se la lingua con cui abbiamo a che fare è particolarmente difficile e il periodo a nostra disposizione breve; con 4 mesi in Finlandia è difficile diventare fluenti in finlandese, stesso discorso per lingue come l’estone, il polacco, l’islandese etc, che richiederebbero uno studio molto intenso e un contatto costante con la lingua per permetterci di padroneggiarla in così poco tempo; ma, insomma, ci siamo capiti. 

La scelta migliore, che è anche (purtroppo), la più difficile, generalmente è quella di buttarsi a capofitto nella lingua e cancellare la paura di sbagliare.
Le persone rideranno un po’ (succede, quando invento dei congiuntivi in portoghese), ci troveranno buffi… ma chi ha detto che è un male?

In fin dei conti, imparare una lingua è un viaggio nel viaggio. Ho scoperto che in portoghese esiste il congiuntivo futuro. Ho passato due settimane a formare periodi ipotetici, e alla fine, bene o male, sono riuscita a capire il meccanismo. Ho scoperto che in portoghese quando si dice “a gente” (lett., la gente) non ci si riferisce a un gruppo di persone in generale; ci si riferisce a NOI. “A gente vai embora” non significa “la gente se ne va”, ma “noi ce ne andiamo”. Non chiedetemi perché. Ma se mai vi capitasse di parlare con dei portoghesi, o soprattutto con dei brasiliani (in Brasile il “noi”, nos, è praticamente in disuso), sappiate che vi tocca riferirvi a voi stessi in terza persona; il che, pensandoci è abbastanza originale e divertente. Ho scoperto che la risposta tipica ad una domanda che richiede il si o no non è il corrispondente “sim” o “não”, bensì la ripetizione del verbo stesso. “E’ bom o chà?” (è buono il the?) “E’”. “Gostas de Portugal?” (“ti piace il Portogallo?”). “Gosto”. “E’ aqui onde moras?” (E’ qui che abiti?”) “Não è” . Il che non impedisce certo la comunicazione, ma rispondere con un semplice “sim” è come attaccarsi in fronte un cartello che dice “STRANIERA”.

Qualsiasi studente erasmus può raccontare centinaia di aneddoti come questi e anche di più, ma il punto, ho pensato, è fondamentalmente uno: vale la pena commettere errori, se il premio è un lasciapassare per entrare a porte aperte in questa cultura. Se volessimo semplicemente starcene a casa ad ascoltare italiano, dopotutto, non avremmo mai viaggiato.


Beijinhos!